A causa delle avarie frequenti della
piattaforma IlCannocchiale, dove - in
4 anni e 5 mesi - il mio blog Vincesko
ha totalizzato 700.000 visualizzazioni, ho deciso di abbandonarla gradualmente.
O, meglio, di tenermi pronto ad abbandonarla. Ripubblico qua i vecchi post a
fini di archivio, alternandoli (orientativamente a gruppi di 5 al giorno) con
quelli nuovi.
Post n. 208 del 05-11-2012 (trasmigrato da
IlCannocchiale.it)
Le proposte del
Partito Democratico/1 - Lavoro
Inizio con
questo post (come già fatto in PDnetwork
nel corso del 2011), in attesa di quelle che verranno redatte per le elezioni
politiche 2013 e per un’utile comparazione con quelle che sono presentate dai tre
candidati del PD per le elezioni primarie del centrosinistra 2012, la
pubblicazione delle Proposte del Partito
Democratico, così come esse sono state elaborate ed approvate finora dagli
organismi dirigenti del partito, corredandole di miei commenti sui punti
salienti.
LE
PROPOSTE DEL PARTITO DEMOCRATICO/1
LAVORO
Le proposte del PD per il lavoro si pongono un duplice
obiettivo. In primis dare una risposta all’emergenza disoccupazione che
l’Italia sta vivendo specie per quanto riguarda i giovani, le donne, il
Mezzogiorno. Allo stesso tempo serve restituire al lavoro il senso, il valore e
la dignità che ad esso competono come elemento essenziale per l’identità delle
persone, per la loro realizzazione umana e sociale, e in quanto fondamento
della democrazia, secondo i principi e le norme della Costituzione.
Più crescita economica per più occupazione.
Creare maggiori opportunità di lavoro comporta
innanzitutto ridare slancio all’economia italiana al fine di realizzare ritmi
di crescita più elevati, qualificati e sostenibili. Sono quindi necessarie
politiche macroeconomiche capaci di promuovere lo sviluppo - sostenute da
iniziative europee dello stesso segno - accompagnate da riforme strutturali (il
fisco, la scuola, la pubblica amministrazione, le liberalizzazioni, le
politiche industriali per l’innovazione e la “green economy”) che permettano di
aumentare la produttività del sistema economico e di renderlo più competitivo
nel mercato globale. È in questo contesto che vanno inserite le misure volte a
rendere il mercato del lavoro più inclusivo e dinamico ma anche meno frammentato
e diseguale di quanto non sia oggi. Si tratta di sconfiggere l’incertezza di
prospettive che, dentro la crisi, investe l’insieme del mondo del lavoro, come
dimostrano i sondaggi che segnalano come la mancanza di lavoro o il rischio di
perderlo siano le principali preoccupazioni di quasi una persona su due.
Un progetto per l’occupazione giovanile e femminile.
Oggi gli esclusi dal mercato del lavoro sono in primo
luogo i giovani e le donne, occorre quindi dare priorità alla realizzazione di
un “progetto nazionale” mirato a favorirne l’occupazione attraverso l’impegno
coordinato, con obiettivi definiti e verificabili, del governo, delle regioni,
delle altre autonomie locali e delle parti sociali. Un progetto alimentato,
visti i vincoli di finanza pubblica, dall’utilizzo sinergico e finalizzato
delle risorse dei fondi europei, nazionali, regionali e degli stessi fondi
interprofessionali per la formazione. Strumenti principali di questo intervento
dovrebbero essere, per i giovani:
·
il
contratto di apprendistato da incentivare in relazione alla formazione
impartita e fiscalmente agevolato per la sua trasformazione in lavoro stabile;
·
una nuova
regolazione dei tirocini e degli stages, che impedisca gli abusi;
·
la
defiscalizzazione per un primo congruo periodo di tempo delle imprese e delle
attività professionali avviate da giovani.
Per promuovere l’occupazione femminile occorre invece:
·
il
potenziamento dei servizi e dei sostegni economici per conciliare lavoro e
famiglia;
·
universalizzare
l’indennità di maternità e ripristinare le norme di contrasto alla “dimissioni
in bianco”;
·
estendere
il part-time agevolato e volontario;
·
utilizzare
la leva fiscale per favorire le assunzioni femminili specie nelle aree più
svantaggiate e per alleggerire l’imposizione sul reddito delle mamme che
lavorano.
Contrastare la precarietà e riunificare il mercato del
lavoro.
La ragione di fondo della diffusione di rapporti di
lavoro precari è la loro convenienza economica. Per mettere fine a questa
situazione occorre quindi agire affinché il lavoro flessibile cessi di costare
meno del lavoro stabile attraverso una graduale convergenza degli oneri sociali
complessivi per le due forme di lavoro, accompagnata dalla fissazione di un
salario o compenso minimo e da un’integrazione fiscale per le pensioni dei
lavoratori più giovani. Più in generale, per eliminare le diversità di
trattamenti e di tutele che caratterizzano i rapporti di lavoro, occorre
puntare su una loro progressiva equiparazione sia per quanto riguarda le misure
di sostegno al reddito, attraverso la riforma degli ammortizzatori sociali
(cassa integrazione, indennità di disoccupazione), sia in relazione alle
protezioni sociali relative alla malattia, maternità, infortuni, dando vita
così ad una base comune di diritti sociali per tutte le forme di lavoro. Non
solo quindi per il lavoro dipendente ma anche per quello autonomo e
professionale, secondo modalità definite da un apposito Statuto dei lavori
autonomi. A queste iniziative di riunificazione del mercato del lavoro se ne devono
aggiungere altre per garantirvi trasparenza e legalità, quali la lotta al
lavoro nero ed irregolare, con il riconoscimento del caporalato come reato, e
un costante impegno di vigilanza e di prevenzione per la salute e la sicurezza
nei luoghi di lavoro.
Rafforzare le politiche attive del mercato del lavoro.
Il mondo del lavoro è soggetto a grandi cambiamenti e
a crescente mobilità. È quindi necessario, nell’ottica della “flexicurity”
europea, coniugare le misure di sostegno al reddito con politiche attive
indirizzate a favorire le transizioni professionali e la ricollocazione al
lavoro delle persone a maggior rischio di esclusione come gli ultra 45enni
coinvolti nelle ristrutturazioni industriali. A questi fini appare
indispensabile il potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego e la
collaborazione con quelli privati. Un ruolo centrale in queste politiche è
ricoperto dalla formazione che va quindi riorganizzata, qualificata e resa
permanente così da facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro,
specie in una fase come l’attuale caratterizzata dalla riorganizzazione
dell’apparato produttivo e dalla trasformazione del lavoro stesso. In
un’economia e in una società fondate sulla conoscenza, il costante
aggiornamento culturale e delle competenze acquista un rilievo tale, da
legittimare la proposta di fare della formazione un diritto di ogni singolo
lavoratore lungo tutto l’arco della vita.
Il ruolo delle parti sociali.
La contrattazione collettiva concorre anch’essa alla
creazione di maggiore e migliore occupazione. Da qui l’importanza per il Paese
di un sistema di relazioni industriali moderno ed efficiente che riconosca nel
contratto nazionale lo strumento irrinunciabile per la tutela generale delle
condizioni di lavoro ma che estenda e valorizzi la contrattazione di secondo
livello così da tener conto delle specifiche esigenze produttive ed
organizzative delle singole imprese e allo stesso tempo di permettere
miglioramenti salariali legati alla produttività. Per un efficace funzionamento
delle relazioni industriali sono necessarie regole condivise tra le parti che
garantiscano certezza ed esigibilità agli accordi sottoscritti e nel contempo
riconoscano pienamente i diritti sindacali in azienda a tutte le organizzazioni
rappresentative dei lavoratori. C’è però una lacuna che andrebbe colmata al più
presto. Nel caso italiano, contrariamente a quanto accade nella generalità dei
paesi europei, non esistono norme che prevedano la partecipazione dei
lavoratori nella gestione delle imprese: che si tratti del riconoscimento dei
diritti d’informazione e di consultazione sulle scelte strategiche dell’azienda
oppure, in un sistema duale di conduzione aziendale, della costituzione di
comitati di sorveglianza con l’inserimento di rappresentanti eletti dai
lavoratori.
________________________________________________________________________
Meno precarietà, più sostegno alle famiglie, incentivi al lavoro
femminile, tutela dei lavoratori autonomi e dei professionisti, formazione
qualificata. Sviluppo, lavoro e welfare, per il “diritto unico” del lavoro. _____________________________________________________________
Estrapolo
alcuni punti delle proposte e vi aggiungo un commento (l’aggiornamento viene
riportato tra parentesi quadre).
Un
progetto per l’occupazione giovanile e femminile.
Oggi gli esclusi dal mercato del lavoro sono in primo
luogo i giovani e le donne, occorre quindi dare priorità alla realizzazione di
un “progetto nazionale” mirato a favorirne l’occupazione attraverso l’impegno
coordinato, con obiettivi definiti e verificabili, del governo, delle regioni,
delle altre autonomie locali e delle parti sociali.
La
rinascita del Sud e dell’Italia in generale passa attraverso una rivoluzione
insieme economica e culturale, che deve avere come soggetto principale la donna
(accrescendo sensibilmente il suo tasso di attività), ed in particolare la
donna-madre.
Nella
Lettera di PDnetwork (cfr. nota 18) [1], è scritto:
“Sembra proprio
ci sia relazione tra ruolo e grado di partecipazione della donna e indice di
sviluppo di un Paese.
Secondo il IV Rapporto Onu sullo sviluppo umano nei
paesi arabi http://www.resetdoc.org/story/00000000366
“il tasso di
occupazione femminile (cioè la percentuale di donne dai 15 anni in su che
forniscono lavoro o sarebbero disponibili a farlo) si ferma al 33%, rimanendo
così il più basso del mondo”.
E “gli autori
del Rapporto non esitano a sostenere che proprio dalla conquista della piena
autonomia da parte delle donne potrebbe partire la rinascita commerciale,
economica e culturale dei paesi arabi”.
Dal Rapporto ONU sullo Sviluppo Umano 2010,
si ricava che:
“I paesi arabi
includono cinque dei 10 “Top Movers” ovvero le nazioni (sulle 135 oggetto della
ricerca) che hanno mostrato la migliore performance nell’ISU [Indice di
Sviluppo Umano] a partire dal 1970: Oman (n.1), Arabia Saudita (n. 5), Tunisia
(n. 7), Algeria (n. 9) e Marocco (n. 10). Nell’Indice di disuguaglianza di
genere (IDG), tuttavia, gli Stati arabi registrano un ISU regionale medio del
70 percento, ben al di sopra della perdita mondiale media del 56 percento.
All’ultimo posto nella classifica mondiale relativa all’IDG è lo Yemen, con una
perdita ISU dell’85 percento”.
Dal Rapporto ISTAT relativo al II trim. 2010
(tabb. 13 e 14) http://www.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/forzelav/20100923_00/testointegrale20100923.pdf, si ricava che il dato aggregato italiano di inattività
delle donne, pari al 48,6% (39,4% al Nord e 42,4% al Centro) è determinato dal
peso negativo del Sud: “Nel Mezzogiorno, il tasso di inattività della
componente femminile rimane particolarmente elevato ed è pari al 63,5 per
cento”, (contro il 33,7 dei maschi).
Occorrerebbe –
come per i Paesi arabi – rimuovere questo macigno operando congiuntamente su
due direttrici: quella economica e quella culturale”.
Per
incidere sugli aspetti culturali, in un’ottica di benchmarking, è necessario
attuare un Progetto di assistenza a domicilio alle mamme in gravidanza e nei
primi 3 anni dei figli, per aggredire e rimuovere i freni culturali e innovare
i paradigmi educativi:
(v.
Educazione dei figli, in famiglia, dalla
gravidanza a tre anni http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2753847.html oppure http://vincesko.blogspot.com/2015/05/educazione-dei-figli-in-famiglia-dalla.html
Considerazioni analoghe valgono per i
giovani, il cui tasso di occupazione nominale (in realtà, aggiungendo i
cosiddetti “scoraggiati”, è molto più elevato) è pari al 30%. [ora è al 35%, ma
una corretta interpretazione dei dati v. Tasso di disoccupazione e tasso di occupazione http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2738031.html oppure http://vincesko.blogspot.com/2015/04/tasso-di-disoccupazione-e-tasso-di.html
Contrastare
la precarietà e riunificare il mercato del lavoro.
La ragione di fondo della diffusione di rapporti di
lavoro precari è la loro convenienza economica. Per mettere fine a questa
situazione occorre quindi agire affinché il lavoro flessibile cessi di costare
meno del lavoro stabile attraverso una graduale convergenza degli oneri sociali
complessivi per le due forme di lavoro, accompagnata dalla fissazione di un
salario o compenso minimo e da un’integrazione fiscale per le pensioni dei
lavoratori più giovani.
[Ante riforma
Monti-Fornero] La Lettera di
PDnetwork [1] pone come
prioritario il superamento del mercato del lavoro “duale”, attraverso: a) la riforma del diritto del lavoro,
armonizzando le proposte di legge del PD in materia (cfr. note 5, 6, 7 e 8
della Lettera); b) la decisione che il lavoro precario costi più (non come) di
quello stabile; c) la riforma degli
ammortizzatori sociali, introducendo il reddito
di cittadinanza universale e; d)
l’adeguamento del cosiddetto “tasso di sostituzione” pensionistico dei
lavoratori precari.
Il
dibattito nel PD è intenso, poiché non c’è una proposta univoca di riforma
della normativa sul lavoro, contrapponendosi essenzialmente due visioni;
quella, maggioritaria, del mantenimento dell’art. 18 (cfr. DdL
Ghedini-Passoni-Treu, v. [1], nota 6) e quella di un suo superamento, ma
limitatamente ai nuovi assunti (cfr. DdL Ichino, v. [1], nota 5).
Infine,
per quanto riguarda il finanziamento dell’adeguamento delle pensioni dei
precari, si potrebbero reperire le risorse dalla riforma delle pensioni di
anzianità [ora
eliminate dalla riforma Fornero, destinando tutti i cospicui risparmi ad avanzo
primario],
attuata secondo la proposta di legge Damiano-Baretta basata sulla flessibilità
e incentivi/disincentivi, previsti dalla riforma Dini del 1995 (v., tra gli
altri, un articolo su l’Unità http://cesaredamiano.files.wordpress.com/2011/11/pensioni-recuperare-il-principio-della-flessibilitc3a0.pdf ).
Rafforzare
le politiche attive del mercato del lavoro.
Il mondo del lavoro è soggetto a grandi cambiamenti e
a crescente mobilità. È quindi necessario, nell’ottica della “flexicurity”
europea, coniugare le misure di sostegno al reddito con politiche attive
indirizzate a favorire le transizioni professionali e la ricollocazione al
lavoro delle persone a maggior rischio di esclusione come gli ultra 45enni
coinvolti nelle ristrutturazioni industriali.
E’
fondamentale che l’attuazione della riforma del lavoro eviti la solita e
negativa prassi italica del tavolo monco, com’è stato anche nella normativa
varata dal centrosinistra: flessibilità e non anche sicurezza.
In
più, mi fa piacere rimarcare l’accenno agli over 45, che sembra preso pari pari
dalla nota 9 della Lettera di PDnetwork
[1]:
[9]
Studio Commissione d'indagine
sull'esclusione sociale,
in cui si parla anche del Reddito minimo garantito (pagg. 171-191)
http://www.commissionepoverta-cies.eu/Archivio/rapporto2010.pdf (se il link
non è attivo, v. http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/797F78C3-548D-45AE-AD46-CBA23BCE0B08/0/Rapporto_2010_def.pdf ).
Sia
l'ipotesi Ichino, sia l'ipotesi recente della CGIL http://www.cgil.it/Archivio/politiche-lavoro/AmmortizzatoriSociali/Riforma%20Ammortizzatori_PROPOSTA.pdf non hanno il
carattere della universalità ed esprimono un'ottica centrata sulla figura del
lavoratore occupato, con un'accumulazione nel tempo di contributi a carico
delle imprese, soprattutto, e dei lavoratori; per erogare, in sostanza, sussidi
di disoccupazione, la prima per un arco temporale di 4 anni, la seconda di 3
anni; anche il suggerimento del governatore Draghi e la proposta di legge della
deputata Marianna Madia hanno entrambi un'ottica parziale e volano basso.
Disinteressandosi tutti e quattro di milioni di persone che sono forse in
situazioni ancora peggiori dei precari, come ad esempio le centinaia di
migliaia di OVER 45 (stimati in un milione), la più parte con famiglia a
carico, rimasti disoccupati e “troppo vecchi per il lavoro, troppo giovani per
la pensione”, che quasi nessuno considera.
Più
crescita economica per più occupazione.
Creare maggiori
opportunità di lavoro comporta innanzitutto ridare slancio all’economia
italiana al fine di realizzare ritmi di crescita più elevati, qualificati e
sostenibili. Sono quindi necessarie politiche macroeconomiche capaci di
promuovere lo sviluppo - sostenute da iniziative europee dello stesso segno -
accompagnate da riforme strutturali (il fisco, la scuola, la pubblica
amministrazione, le liberalizzazioni, le politiche industriali per l’innovazione e la “green economy”) che
permettano di aumentare la produttività
del sistema economico e di renderlo più competitivo nel mercato globale.
Produttività.
La produttività è il nostro tallone d’Achille;
negli ultimi 10 anni in Italia è calata dello 0,2%, mentre in altri Paesi
analoghi, come la Germania e la Francia, è cresciuta di quasi il 2% , il che ha
ridotto la competitività del nostro sistema-Paese e dei nostri prodotti. In
questo mio commento nel blog “Percentualmente” (http://amato.blogautore.repubblica.it/2011/05/27/istat-il-2010-in-30-grafici/ ) , ho provato a dare qualche spiegazione sulla variabile
“Produttività”; ne riporto uno stralcio:
3) Io, ai
grafici sopra evidenziati, aggiungerei, per la sua alta rappresentatività della
peculiarità della situazione italiana, quello sulla produttività
http://www.istat.it/dati/catalogo/20110523_00/grafici/1_3.html .
Provo a fare
qualche notazione.
a) La produttività
è il rapporto tra la quantità o il valore del prodotto ottenuto e la
quantità di uno o più fattori,
richiesti per la sua produzione” Quello più oggettivo – diciamo così - è il
rapporto tra quantità, perché prescinde dal prezzo-ricavo: ad esempio, il rapporto tra quantità di autovetture
o frigoriferi o libri o computer prodotti ed il numero di ore lavorate
impiegate nella produzione (prescindendo dalla cause, non tutte addebitabili ai
lavoratori dipendenti, segnalo ad esempio che lo stabilimento polacco della
FIAT produce da solo un numero di autovetture pari a quelle globalmente
prodotte da tutti gli stabilimenti italiani della stessa FIAT).
b) E’ importante notare che, almeno teoricamente, dal livello
di produttività e dal suo incremento nel tempo dipendono sia il livello dei
salari che il loro aumento.
c) E’ quasi superfluo altresì rilevare che il livello del
prezzo-ricavo (cioè di vendita) o del valore
aggiunto, che è la “differenza tra il valore della produzione di beni e
servizi conseguita dalle singole branche produttive e di quelli consumati
(materie prime e ausiliarie impiegate e servizi forniti da altre unità
produttive” http://www.istat.it/dati/catalogo/20110523_00/grafici/1_1.html ) di norma, in un mercato concorrenziale, rispecchia anche
sia il livello qualitativo che il contenuto tecnologico dei prodotti, frutto,
da un lato, della politica industriale di un Paese; dall’altro, della
Ricerca&Sviluppo (R&S) sia privata che pubblica (v. al riguardo
differenze tra Italia e Germania, entrambi Paesi a forte vocazione
manifatturiera).
Dinamica dei
salari.
Per
la legge dei vasi comunicanti, la globalizzazione [2] ha comportato e comporterà: a) la tendenza al livellamento dei salari (verso l’alto dei Paesi
in via di sviluppo; verso il basso di quelli sviluppati); b) anche dei prezzi, ma solo in parte: un’aliquota delle merci
prodotte ed esclusi tutti i servizi): c)
la delocalizzazione di una parte delle industrie con conseguente perdita di
posti di lavoro e; d) un
peggioramento dei diritti e della normativa sul lavoro, con conseguente
depauperamento di aliquote significative di lavoratori dipendenti a beneficio
dei datori di lavoro, anche nei settori sottratti alla concorrenza
internazionale, e l’aumento delle differenze sociali. [cfr. [1], note 2 e 4).
E’
vero che “L’ascesa delle economie
emergenti, e in particolare della Cina - come sostiene Hans Timmer,
direttore delle Prospettive di Sviluppo - non
va vista come una minaccia, ma come un’opportunità”, ma occorrono alcune
cose:
1) la crescita
dimensionale delle imprese italiane o la loro messa in rete per gli aspetti
commerciali (incluso il marketing), e finanziari, per poter operare e competere
in un mercato globale;
2) il sostegno
dello Stato per gli aspetti prima citati, sia in termini di strutture in loco
dedicate, sia in termini di visite periodiche dei massimi esponenti
istituzionali (tranne l’allora presidente Ciampi e una presenza costante
dell’ex presidente Prodi, ora in qualità
di semplice docente, quasi nessuno [del governo Berlusconi] è andato in Cina!)
, ai quali va aggiunto il fondamentale fattore di “ricerca e innovazione”; e un
potenziamento dei controlli e delle misure per limitare il dumping sociale;
3) infine, a fini
di giustizia sociale, ma anche per innovare le relazioni tra i soggetti
economico-sociali ed accrescere l’efficienza del Paese, una incisiva riforma
della legislazione sul lavoro, sulla funzione dei sindacati, sulla
partecipazione dei lavoratori all’azionariato ed al controllo delle imprese (v.
appresso “Il ruolo delle parti sociali”).
Ricerca e Sviluppo
(e Innovazione) (R&S)
In
merito al fattore “ricerca e sviluppo”, sarebbe utile un’analisi comparativa
tra l’Italia e la Germania. In Germania, operano 80 sedi dell’Istituto Max
Planck (Società Max
Planck per l'Avanzamento delle Scienze), adeguatamente
finanziate dallo Stato, che mettono gratuitamente a disposizione delle imprese
i risultati delle loro ricerche.
Altrettanto
fa l’equivalente italiano, il Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche).
Perché
i risultati sono diversi? E’ un problema di risorse, di organizzazione, di
interazione inefficiente tra l’Ente e le imprese, di insufficiente orientamento
all’innovazione delle imprese?
In
base alla mia limitatissima esperienza, un po’ tutti questi fattori.
Provo
a fare alcune considerazioni da non esperto.
Il
livello di propensione all’innovazione è parente stretto del livello di propensione al rischio, che, secondo
me, ha due determinanti, variamente
calibrate per ciascun individuo: il carattere innato, frutto dei geni, e,
soprattutto, l’educazione ricevuta in
famiglia (in senso lato). Che poi determinano o almeno concorrono a
determinare fortemente le propensioni e le scelte future, anche, ad esempio,
sul corso di studi o sul tipo di lavoro o sulla decisione di rendersi autonomi
o sull’accogliere il nuovo e il diverso.
1. In 'Tecnica
bancaria', il tema della propensione al rischio assume una notevole importanza,
poiché da esso dipende grandemente il tipo d'investimenti: la scelta tra le
forme d'investimento (tra un deposito bancario, un fondo azionario piuttosto
che obbligazionario o addirittura in venture capital) è strettamente
correlato sì al livello del tasso di rendimento, ma – a ben vedere –
soprattutto al grado di propensione al rischio, perché i tassi di rendimento
più elevati incorporano un livello di rischiosità maggiore.
2. Gli istituti
finanziari e gli enti di ricerca si limitano, attraverso appositi studi
statistici (sondaggi, distribuzione di questionari, interviste mirate), a
fotografare il fenomeno.
3. Ma, in linea
teorica, sarebbe possibile influenzare la variabile “propensione al rischio”? La domanda che ne consegue è quindi: da
che cosa dipende il livello di propensione al rischio? Ecco 4 link, che danno
una risposta parziale a questo quesito, da angolature diverse e complementari. “Avversione
(e propensione) al rischio” http://it.wikipedia.org/wiki/Avversione_al_rischio
“Stress
e propensione al rischio: le differenze fra i sessi” http://brainfactor.it/index.php?option=com_content&view=article&id=196:stress-e-propensione-al-rischio-le-differenze-fra-i-sessi&catid=23:psicologia-sociale&Itemid=3
“Il
testosterone e la propensione al rischio del trader”
“Su
'Mente & Cervello' di Gennaio, un
articolo di Valentina
Murelli sulle “caratteristiche imprenditoriali” riporta che,
secondo uno studio pubblicato su “Nature”, alcuni ricercatori
della Cambridge University, guidati da Barbara Sahakian, hanno sottoposto 16 imprenditori
e 17 manager a test neurocognitivi per valutare le loro abilità decisionali ed
hanno scoperto la sostanziale differenza che c’è tra un imprenditore, che guida
la propria azienda, e un manager, che gestisce quella di altri: la propensione a correre
rischi.
Nei
vari test, gli imprenditori si sono rivelati più propensi ad assumere rischi,
inoltre, hanno dimostrato anche maggiore impulsività e flessibilità cognitiva
superiore.
Insomma, le caratteristiche del bravo imprenditore sono la “propensione al rischio e l’impulsività”.
Insomma, le caratteristiche del bravo imprenditore sono la “propensione al rischio e l’impulsività”.
4. Pare potersene
ricavare la conferma, anche in questo caso, che il livello di propensione al
rischio abbia due determinanti, variamente calibrate per ciascun individuo: il carattere innato, frutto dei geni, e l'educazione ricevuta. Che poi
determinano o almeno concorrono a determinare le scelte future, anche, ad
esempio, sulla scelta del corso di studi o sul tipo di lavoro.
5. L'Italia è
caratterizzata e nota in Europa e forse nel mondo per l'altissimo numero di
partite IVA (mi pare in totale 8 milioni), il che – al netto però del peso
rilevante del lavoro autonomo, compreso quello che è tale solo formalmente -
attesterebbe una notevole diffusione dello spirito imprenditoriale. Anche al
Sud c'è un numero elevato di partite IVA. Ciononostante, il Politecnico di
Torino – che fa anche da incubatore di nuove imprese, mettendo a disposizione
il frutto delle sue ricerche – pare riesca ad attivare molte più spin-off e start-up della facoltà d'Ingegneria dell'Università “Federico II”
di Napoli, anche per mancanza – diciamo così - di materia prima imprenditoriale.
6. Io sono stato,
nella mia vita lavorativa, sia lavoratore dipendente, sia imprenditore, sia
lavoratore autonomo. Beh, posso assicurare che, avendo una propensione al
rischio bassa, credo determinata soprattutto dall'educazione, quando sono stato
costretto a mutarmi in imprenditore, ho penato moltissimo ed ho impiegato
diversi anni per adattarmi, ma mai del tutto.
7. Ho capito,
quindi, per esperienza empirica diretta, che, al netto del carattere, vale a
dire del fattore innato, l'educazione (che è l'insegnamento sostenuto,
rafforzato dall'esempio) svolge un ruolo fondamentale nel determinare la
propensione al rischio: che è materia prima indispensabile sia per creare
un'impresa, sia per scalare una montagna, sia per passeggiare di sera in un
quartiere malfamato di Napoli, sia per diventare un condottiero, sia per creare
e dirigere (e contendere la leadership di) - persino in Italia - un partito
nuovo, sia per decidere il proprio portafoglio titoli.
La
soluzione, quindi, è investire nell'educazione in famiglia (e nella scuola, ma
dopo), innovando il paradigma educativo-culturale
materno-femminile-protettivo-conservativo, influenzato storicamente e
profondamente dalla Chiesa cattolica italiana.
Questo
articolo de Lavoce.info viene a bomba
sul tema dell’educazione e della propensione al nuovo AIUTARE
I GIOVANI A GUARDARE LONTANO
Il ruolo delle parti
sociali.
[…]. C’è però una
lacuna che andrebbe colmata al più presto. Nel caso italiano, contrariamente a
quanto accade nella generalità dei paesi europei, non esistono norme che
prevedano la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese: che si
tratti del riconoscimento dei diritti d’informazione e di consultazione sulle
scelte strategiche dell’azienda oppure, in un sistema duale di conduzione
aziendale, della costituzione di comitati di sorveglianza con l’inserimento di
rappresentanti eletti dai lavoratori.
Sul
tema, allego questo mio ‘post’: Partecipazione
dei lavoratori alla proprietà ed al controllo delle aziende http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2586257.html oppure http://vincesko.blogspot.it/2015/03/partecipazione-dei-lavoratori-alla.html,
dal quale stralcio:
Premessa: come ho riportato nella Lettera di
PDnetwork alla Segreteria Nazionale: a) i salari italiani sono – e non da ora -
tra i più bassi d’Europa (cfr. nota 11); b) tra i 30 paesi Ocse, oggi l’Italia
ha il sesto più grande gap
tra ricchi e poveri (cfr. nota 2).
La
globalizzazione, [2] col corollario
di delocalizzazioni di imprese, impone, ancor più di prima, di abbandonare le
contrapposizioni pregiudiziali e di ricercare e trovare pragmaticamente
soluzioni innovative, nell’interesse del Paese ed in particolare dei ceti medi e bassi.
Si
sta parlando, come parte della soluzione, di partecipazione dei lavoratori alla proprietà
ed al controllo (nel Consiglio di sorveglianza)delle aziende (vedansi all'interno del post linkato più sopra le proposte di legge http://www.pietroichino.it/?p=2981 ). [3]
[1] Lettera di PDnetwork
http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2593370.html
oppure http://vincesko.blogspot.it/2015/03/lettera-di-pdnetwork-alla-segreteria.html
[2] La globalizzazione non è un gioco equo
http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2760049.html oppure http://vincesko.blogspot.com/2015/05/la-globalizzazione-non-e-un-gioco-equo.html
[3]
FIAT, Marchionne, cogestione e produttività http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2754319.html oppure http://vincesko.blogspot.com/2015/05/fiat-marchionne-cogestione-e.html
Articoli
collegati:
I diritti alzano la voce”, per un nuovo welfare
Una
tesi eterodossa della professoressa Chiara Saraceno (in calce all’articolo un
mio commento).
MENO TASSE PER LE DONNE: INEFFICACE E
INGIUSTO
di Chiara
Saraceno
21.11.2011
Per
favorire l'occupazione femminile il governo Monti starebbe valutando una
differenziazione nella imposizione fiscale sul reddito da lavoro di donne e
uomini. L'idea è inefficace e ingiusta. Inefficace perché non c'è abbassamento
di aliquota che compensi una domanda di lavoro debole o nulla rivolta a donne a
bassa qualifica. Ingiusta perché rischia di rivelarsi una redistribuzione da
famiglie a reddito basso verso quelle a reddito alto. Più utile investire nella
formazione e destinare tutte le risorse possibili all'allargamento dell'offerta
di servizi di cura.
Un
articolo interessante, soprattutto perché indica una opportuna
de-ideologizzazione del tema (in calce un mio commento):
22 novembre 2011
Articolo 18 e Pd, mediazione possibile?
Il governo Monti e le nuove norme sul lavoro: i dem si spaccheranno?
Mariantonietta
Colimberti
link sostituito
da:
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