A causa delle
avarie frequenti della piattaforma IlCannocchiale,
dove - in 4 anni e 5 mesi - il mio blog Vincesko
ha totalizzato finora quasi 700.000 visualizzazioni, ho deciso di abbandonarla
gradualmente. Ripubblico qua i vecchi post a fini di archivio, alternandoli
(orientativamente a gruppi di 5 al giorno) con quelli nuovi.
Post
n. 84 del 17-08-11 (trasmigrato da IlCannocchiale.it)
L’ammuina dei poveri e l’egoismo
dei ricchi
Utili idioti.
Nel breve carteggio tra Einstein e Freud (v. “Perché la guerra?” Lettera di Albert Einstein a Sigmund Freud e risposta di quest’ultimo http://partitodemocratico.gruppi.ilcannocchiale.it/?t=post&pid=2595199 ), [se il link non è più attivo, v. nota in calce *] Einstein chiede a Freud perché tantissime persone (la maggioranza) arrivano a sostenere politiche di guerra, propugnate da pochi, che vanno a loro danno.
Anch’io me lo chiedo a proposito della politica economica e combatto contro sia la DISINFORMAZIONE di pochi UTILI IDIOTI ben retribuiti (spesso direttori o editorialisti di giornale), sia la scelta autolesionistica di tantissimi UTILI IDIOTI che gratuitamente appoggiano le politiche portate avanti dai governi di destra.
Ammuina.
Se la stragrande maggioranza della popolazione, in piccolissima parte composta da utili idioti ben retribuiti, la più parte gratis, non avesse l’abitudine di dividersi e di fare ammuina, come potrebbe un’esigua (in Italia) o infima (nel mondo) minoranza decidere per tutti e riuscire a “schiavizzare” il resto dell’umanità per continuare ad arricchirsi?
Io sono piuttosto individualista, ma poiché credo fermamente nella necessità di unire le forze, se si vuole perseguire il nobile obiettivo della giustizia sociale, che non è una parola vuota, ma la quintessenza del sentire democratico di sinistra riformista, a cui idealmente appartengo, ma anche un obiettivo che può essere condiviso da chi non ha una visione grettamente egoistica ed è consapevole che una distribuzione equa della ricchezza e del benessere è un vantaggio per tutti, occorre smettere l’abitudine autolesionistica di dividersi e fare ammuina, quell’ammuina che favorisce soltanto i ricchi potenti, egoisti, avidi e spietati.
Leggi di stabilità e Manovre correttive.
Faccio sommessamente notare a tutti che un’analoga consapevolezza è necessaria per contrastare adeguatamente la prassi scandalosa dell’attuale governo di destra di scaricare quasi tutto il peso del risanamento dei conti sul ceto medio-basso e sui poveri.
Brain imaging.
Quello delle aree deputate del cervello va preso cum grano salis, visto che il cervello è un organo molto complesso in buona parte ancora inesplorato. Detto questo, adesso con la tecnica dell’imaging cerebrale (brain imaging) è possibile individuare delle aree funzionali deputate. A questo proposito: il maggior cruccio di Sigmund Freud – che era laureato in medicina – fu forse proprio quello di non essere riuscito ad ottenere – dato il livello tecnologico di allora - le evidenze oggettive, neurofisiologiche della sua teoria psicanalitica.
Amore e odio.
Cito apposta la coppia amore-odio e le strutture neuronali, perché egli inferì/ipotizzò dal fatto che l'amore potesse trasformarsi molto rapidamente in odio (e viceversa) che probabilmente fossero situati in aree contigue del cervello. Tre anni fa, una ricerca inglese, proprio utilizzando la tecnica dell'imaging cerebrale, ha avuto l'evidenza scientifica che non solo sono contigui, ma che addirittura hanno una struttura neuronale parzialmente in comune. La fonte della notizia per me fu Enrico Franceschini su “Repubblica”, ma non riesco a trovare l'articolo del 2008, allora linko quest'altro che ne riprende la notizia:
http://www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum/neuroestetica.-cosi-la-scienza-spiega-l-arte-e-l-amore
Egoismo e altruismo.
L’egoismo e l’altruismo pare abbiano invece una collocazione in aree diverse. E, lo so perché succede a me, sono naturalmente in competizione tra loro e, quando per un individuo, educato all’altruismo, prevale la pulsione egoistica, attivata ad esempio dal desiderio di denaro, ne risente la performance generale. Ma, a ben vedere, non succede lo stesso, anzi peggio, per l'amore e l'odio?
Qual è la causa e quale l’effetto?
E’ l’egoismo una conseguenza della ricchezza o la propensione e la determinazione ad arricchirsi un effetto della pulsione egoistica?
Nel breve carteggio tra Einstein e Freud (v. “Perché la guerra?” Lettera di Albert Einstein a Sigmund Freud e risposta di quest’ultimo http://partitodemocratico.gruppi.ilcannocchiale.it/?t=post&pid=2595199 ), [se il link non è più attivo, v. nota in calce *] Einstein chiede a Freud perché tantissime persone (la maggioranza) arrivano a sostenere politiche di guerra, propugnate da pochi, che vanno a loro danno.
Anch’io me lo chiedo a proposito della politica economica e combatto contro sia la DISINFORMAZIONE di pochi UTILI IDIOTI ben retribuiti (spesso direttori o editorialisti di giornale), sia la scelta autolesionistica di tantissimi UTILI IDIOTI che gratuitamente appoggiano le politiche portate avanti dai governi di destra.
Ammuina.
Se la stragrande maggioranza della popolazione, in piccolissima parte composta da utili idioti ben retribuiti, la più parte gratis, non avesse l’abitudine di dividersi e di fare ammuina, come potrebbe un’esigua (in Italia) o infima (nel mondo) minoranza decidere per tutti e riuscire a “schiavizzare” il resto dell’umanità per continuare ad arricchirsi?
Io sono piuttosto individualista, ma poiché credo fermamente nella necessità di unire le forze, se si vuole perseguire il nobile obiettivo della giustizia sociale, che non è una parola vuota, ma la quintessenza del sentire democratico di sinistra riformista, a cui idealmente appartengo, ma anche un obiettivo che può essere condiviso da chi non ha una visione grettamente egoistica ed è consapevole che una distribuzione equa della ricchezza e del benessere è un vantaggio per tutti, occorre smettere l’abitudine autolesionistica di dividersi e fare ammuina, quell’ammuina che favorisce soltanto i ricchi potenti, egoisti, avidi e spietati.
Leggi di stabilità e Manovre correttive.
Faccio sommessamente notare a tutti che un’analoga consapevolezza è necessaria per contrastare adeguatamente la prassi scandalosa dell’attuale governo di destra di scaricare quasi tutto il peso del risanamento dei conti sul ceto medio-basso e sui poveri.
Brain imaging.
Quello delle aree deputate del cervello va preso cum grano salis, visto che il cervello è un organo molto complesso in buona parte ancora inesplorato. Detto questo, adesso con la tecnica dell’imaging cerebrale (brain imaging) è possibile individuare delle aree funzionali deputate. A questo proposito: il maggior cruccio di Sigmund Freud – che era laureato in medicina – fu forse proprio quello di non essere riuscito ad ottenere – dato il livello tecnologico di allora - le evidenze oggettive, neurofisiologiche della sua teoria psicanalitica.
Amore e odio.
Cito apposta la coppia amore-odio e le strutture neuronali, perché egli inferì/ipotizzò dal fatto che l'amore potesse trasformarsi molto rapidamente in odio (e viceversa) che probabilmente fossero situati in aree contigue del cervello. Tre anni fa, una ricerca inglese, proprio utilizzando la tecnica dell'imaging cerebrale, ha avuto l'evidenza scientifica che non solo sono contigui, ma che addirittura hanno una struttura neuronale parzialmente in comune. La fonte della notizia per me fu Enrico Franceschini su “Repubblica”, ma non riesco a trovare l'articolo del 2008, allora linko quest'altro che ne riprende la notizia:
http://www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum/neuroestetica.-cosi-la-scienza-spiega-l-arte-e-l-amore
Egoismo e altruismo.
L’egoismo e l’altruismo pare abbiano invece una collocazione in aree diverse. E, lo so perché succede a me, sono naturalmente in competizione tra loro e, quando per un individuo, educato all’altruismo, prevale la pulsione egoistica, attivata ad esempio dal desiderio di denaro, ne risente la performance generale. Ma, a ben vedere, non succede lo stesso, anzi peggio, per l'amore e l'odio?
Qual è la causa e quale l’effetto?
E’ l’egoismo una conseguenza della ricchezza o la propensione e la determinazione ad arricchirsi un effetto della pulsione egoistica?
PSICOLOGIA
La ricerca che boccia i ricchi: "Più egoisti e insensibili"
Per realizzare lo studio uno scienziato Usa ha condotto 12 esperimenti, misurando le reazioni cerebrali e il comportamento sociale dei volontari. "Le persone di ceto più basso - spiega - sono più empatiche, portate alla compassione e all'altruismo" di SARA FICOCELLI
16 agosto 2011
http://www.repubblica.it/scienze/2011/08/16/news/cervello_ricchi-20407007/
La ricerca che boccia i ricchi: "Più egoisti e insensibili"
Per realizzare lo studio uno scienziato Usa ha condotto 12 esperimenti, misurando le reazioni cerebrali e il comportamento sociale dei volontari. "Le persone di ceto più basso - spiega - sono più empatiche, portate alla compassione e all'altruismo" di SARA FICOCELLI
16 agosto 2011
http://www.repubblica.it/scienze/2011/08/16/news/cervello_ricchi-20407007/
[*] Perchè la guerra. (il grassetto è mio)
Caro signor Freud,
La proposta,
fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di
cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio
gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me
scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda
che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte
quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli
uomini dalla fatalità della guerra? E’: ormai risaputo che, col progredire
della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di
vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la
buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che
coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e praticamente
divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza in
proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone
assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di
osservare i problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a me,
l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a
discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto,
riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei
giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni
più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana
per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di
cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia
non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà
suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che
elimineranno questi ostacoli.
Essendo immune da
sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di
affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati
creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i
conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i
decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di
accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che
essa ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui
s’incontra la prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, quanto
meno è in grado di far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle
pressioni stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto
e forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla
giustizia, cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate
le sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di
impone il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi
dal possedere una organizzazione sovrannazionale che possa emettere verdetti di
autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione
delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della
sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a
una parte della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è
assolutamente chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta
sicurezza.
L’insuccesso,
nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo decennio a realizzare questa
meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui operano forti fattori
psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti.
La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi
limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere
politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi mercenari,
economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi
in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono
nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione
per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale
autorità.
Tuttavia l’aver
riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo
per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra
domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire
alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da
soffrire e da perdere? (Parlando della maggioranza non escludo i soldati, di
ogni grado, che hanno scelto la guerra come loro professione convinti di
giovare alla difesa dei più alti interessi della loro stirpe e che l’attacco è
spesso il miglior metodo di difesa.) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe
che la minoranza di quelli che di volta in volta sono a1 potere ha in mano
prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni
religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse
rendendoli strumenti della propria politica.
Pure, questa
risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e fa sorgere una ulteriore
domanda: com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti
fino al furore e all’olocausto di sé?
Una sola risposta
si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere.
In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze
eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una
psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che
cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto
nella conoscenza degli istinti umani.
Arriviamo così
all’ultima domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica
degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e
della distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte.
L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima
a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha
contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma
riassuntiva più facile, quella della pagina stampata.
Concludendo: ho
parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali.
Ma sono perfettamente consapevole del fatto che l’istinto aggressivo opera
anche in altre forme e in altre circostanze (penso alle guerre civili, per
esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o,
ancora, alla persecuzione di minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla
forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta,
perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere
mediante i quali rendere impossibili tutti i conflitti armati.
So che nei Suoi
scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a tutti gli
interrogativi posti da questo problema che è insieme urgente e imprescindibile.
Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi tutti se Lei esponesse il problema
della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte, perché tale
esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente
Suo
Albert Einstein
La risposta di
Freud
Caro signor
Einstein,
Quando ho saputo
che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che
Le interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di altri, ho
acconsentito prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al
limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo
psicologo, potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da
diversi lati s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso
con la domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la
fatalità della guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione
della mia - starei quasi per dire: della nostra - incompetenza, poiché questo
mi sembrava un compito pratico che spetta risolvere agli uomini di Stato. Ma ho
compreso poi che Lei ha sollevato la domanda non come ricercatore naturale e
come fisico, bensì come amico dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti
della Società delle Nazioni così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen
allorché si assunse l’incarico di portare aiuto agli affamati e alle vittime
senza patria della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da
me che io faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il
problema della prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo.
Ma anche a questo riguardo quel che c’era da dire è già stato detto in gran
parte nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto un vantaggio, ma io
viaggio volentieri nella sua scia e mi preparo perciò a confermare tutto ciò
che Lei mette innanzi. nella misura in cui lo svolgo più ampiamente seguendo le
mie migliori conoscenze (o congetture).
Lei comincia con il
rapporto tra diritto e forza. È certamente il punto di partenza giusto per la
nostra indagine. Posso sostituire la parola “forza” con la parola più incisiva
e più dura “violenza”? Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È
facile mostrare che l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai
primordi della vita umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la
soluzione del problema ci appare senza difficoltà. Mi scusi se nel seguito
parlo di ciò che è universalmente noto come se fosse nuovo; la concatenazione
dell’insieme mi obbliga a farlo.
I conflitti
d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio decisi mediante
l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno animale, di cui l’uomo fa
inequivocabilmente parte; per gli uomini si aggiungono, a dire il vero, anche i
conflitti di opinione, che arrivano fino alle più alte cime dell’astrazione e
sembrano esigere, per essere decisi, un’altra tecnica. Ma questa è una
complicazione che interviene più tardi. Inizialmente, in una piccola orda
umana, la maggiore forza muscolare decise a chi dovesse appartenere qualcosa o
la volontà di chi dovesse essere portata ad attuazione. Presto la forza
muscolare viene accresciuta o sostituita mediante l’uso di strumenti; vince chi
ha le armi migliori o le adopera più abilmente. Con l’introduzione delle armi
la superiorità intellettuale comincia già a prendere il posto della forza
muscolare bruta, benché lo scopo finale della lotta rimanga il medesimo: una
delle due parti, a cagione del danno che subisce e dell’infiacchimento delle
sue forze, deve essere costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni od
opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale quando la violenza toglie di
mezzo l’avversario definitivamente, vale a dire lo uccide. Il sistema ha due
vantaggi, che l’avversario non può riprendere le ostilità in altra occasione e
che il suo destino distoglie gli altri dal seguire il suo esempio. Inoltre
l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione pulsionale di cui parlerò più
avanti. All’intenzione di uccidere subentra talora la riflessione che il nemico
può essere impiegato in mansioni servili utili se lo s’intimidisce e lo si
lascia in vita. Allora la violenza si accontenta di soggiogarlo, invece che
ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma il vincitore da ora in
poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del vinto, sempre in agguato,
e rinuncia in parte alla propria sicurezza.
Questo è dunque lo
stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta o sostenuta
dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel corso
dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma quale?
Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento che lo strapotere
di uno solo poteva essere bilanciato dall’unione di più deboli. L’union fait la
force. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro
che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del
singolo. Vediamo così che il diritto è la potenza di una comunità. È ancora
sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, opera con gli
stessi mezzi, persegue gli stessi scopi; la differenza risiede in realtà solo
nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, ma quella della
comunità. Ma perché si compia questo passaggio dalla violenza al nuovo diritto
deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione dei più deve essere
stabile, durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di combattere il
prepotente e si dissolvesse dopo averlo sopraffatto, non si otterrebbe niente.
Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a
dominare con la violenza, e il giuoco si ripeterebbe senza fine. La comunità
deve essere mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli statuti
che prevengano le temute ribellioni, istituire organi che veglino
sull’osservanza delle prescrizioni - le leggi - e che provvedano all’esecuzione
degli atti di violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale
comunione di interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami
emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del
gruppo.
Con ciò, penso,
tutto l’essenziale è gia stato detto: il trionfo sulla violenza mediante la
trasmissione del potere a una comunità più vasta che viene tenuta insieme dai
legami emotivi tra i suoi membri. Tutto il resto sono precisazioni e
ripetizioni.
La cosa è semplice
finché la comunità consiste solo di un certo numero di individui ugualmente
forti. Le leggi di questo sodalizio determinano allora fino a che punto debba
essere limitata la libertà di ogni individuo di usare la sua forza in modo
violento, al fine di rendere possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale
stato di pace è pensabile solo teoricamente, nella realtà le circostanze si
complicano perché la comunità fin dall’inizio comprende elementi di forza
ineguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della
guerra e dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si trasformano in padroni
e schiavi. Il diritto della comunità diviene allora espressione dei rapporti di
forza ineguali all’interno di essa, le leggi vengono fatte da e per quelli che
comandano e concedono scarsi diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da
allora in poi vi sono nella comunità due fonti d’inquietudine - ma anche di
perfezionamento - del diritto. In primo luogo il tentativo di questo o quel
signore di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti, per tornare
dunque dal regno del diritto a quello della violenza; in secondo luogo gli
sforzi costanti dei sudditi per procurarsi più potere e per vedere riconosciuti
dalla legge questi mutamenti, dunque, al contrario, per inoltrarsi dal diritto
ineguale verso il diritto uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene
particolarmente notevole quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di
potere all’interno della collettività, come può accadere per l’azione di
molteplici fattori storici. Il diritto si può allora conformare gradualmente ai
nuovi rapporti di potere, oppure, cosa che accade più spesso, la classe dominante
non è pronta a tener conto di questo cambiamento, si giunge all’insurrezione,
alla guerra civile, dunque a una temporanea soppressione del diritto e a nuove
testimonianze di violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo
ordinamento giuridico. C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che
si manifesta solo in modi pacifici, cioè la trasformazione dei membri di una
collettività, ma essa appartiene a un contesto che può essere preso in
considerazione solo più avanti.
Vediamo dunque che
anche all’interno di una collettività non può venire evitata la risoluzione
violenta dei conflitti. Ma le necessità e le coincidenze di interessi che
derivano dalla vita in comune sulla medesima terra favoriscono una rapida
conclusione di tali lotte, e le probabilità che in queste condizioni si giunga
a soluzioni pacifiche sono in continuo aumento. Uno sguardo alla storia
dell’umanità ci mostra tuttavia una serie ininterrotta di conflitti tra una
collettività e una o più altre, tra unità più o meno vaste, città, paesi,
tribù, popoli, Stati, conflitti che vengono decisi quasi sempre mediante la
prova di forza della guerra. Tali guerre si risolvono o in saccheggio o in
completa sottomissione, conquista dell’una parte ad opera dell’altra. Non si
possono giudicare univocamente le guerre di conquista. Alcune, come quelle dei
Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità, altre al contrario hanno
contribuito alla trasformazione della violenza in diritto avendo prodotto unità
più grandi, al cui interno la possibilità di ricorrere alla violenza venne
annullata e un nuovo ordinamento giuridico riuscì a comporre i conflitti. Così
le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana.
La cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia
pacificamente unita, fiorente. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si
deve tuttavia ammettere che la guerra non sarebbe un mezzo inadatto alla
costruzione dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare quelle
più vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili
ulteriori guerre. Tuttavia la guerra non ottiene questo risultato perché i
successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si
disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti unite
forzatamente. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto
unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio i
conflitti sorti all’interno di queste unificazioni che hanno reso inevitabile
il ricorso alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti questi sforzi
bellici è che l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi
guerre, tanto più devastatrici quanto meno frequenti.
Per quanto riguarda
la nostra epoca, si impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una
via più breve. Una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli
uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto
vengano deferiti tutti i conflitti di interessi. Sono qui chiaramente racchiuse
due esigenze diverse: quella di creare una simile Corte suprema, e quella di
assicurarle il potere che le abbisogna. La prima senza la seconda non
gioverebbe a nulla. Ora la Società delle Nazioni è stata concepita come suprema
potestà del genere, ma la seconda condizione non è stata adempiuta; la Società
delle Nazioni non dispone di forza propria e può averne una solo se i membri
della nuova associazione - i singoli Stati - gliela concedono. Tuttavia per il
momento ci sono scarse probabilità che ciò avvenga. Ci sfuggirebbe il
significato di un’istituzione come quella della Società delle Nazioni, se
ignorassimo il fatto che qui ci troviamo di fronte a un tentativo coraggioso,
raramente intrapreso nella storia dell’umanità e forse mai in questa misura.
Essa è il tentativo di acquisire mediante il richiamo a determinati princìpi
ideali l’autorità (cioè l’influenza coercitiva) che di solito si basa sul
possesso della forza. Abbiamo visto che gli elementi che tengono insieme una
comunità sono due: la coercizione violenta e i legami emotivi tra i suoi membri
(ossia, in termini tecnici, quelle che si chiamano identificazioni). Nel caso
in cui venga a mancare uno dei due fattori non è escluso che l’altro possa
tener unita la comunità. Le idee cui ci si appella hanno naturalmente un
significato solo se esprimono importanti elementi comuni ai membri di una
determinata comunità. Sorge poi il problema: Che forza si può attribuire a
queste idee? La storia insegna che una certa funzione l’hanno pur svolta.
L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere qualche cosa di meglio
che i barbari confinanti, idea che trovò così potente espressione nelle
anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte per mitigare i costumi
nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente non fu in grado di
impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del popolo ellenico, e
neppure fu mai in grado di trattenere una città o una federazione di città
dallo stringere alleanza con il nemico persiano per abbattere un rivale.
Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che pure fu abbastanza
potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati cristiani grandi e piccoli
di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre intestine. Anche nella
nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa attribuire un’autorità
unificante del genere. È fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi
i popoli sono dominati spingono in tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto
la penetrazione universale del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine
alle guerre, ma in ogni caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse
sarà raggiungibile solo a prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che
il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il
momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto
che il diritto originariamente era violenza bruta e che esso ancor oggi non può
fare a meno di ricorrere alla violenza.
Posso ora procedere
a commentare un’altra delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile
infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente
qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere
un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza
riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale istinto e negli ultimi anni
abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in
proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi
dopo molti passi falsi e molte esitazioni?
Noi presumiamo che
le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a
conservare e a unire - da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di
Eros nel Convivio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il
concetto popolare di sessualità, - e quelle che tendono a distruggere e a
uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione
aggressiva o distruttiva.
Lei vede che
propriamente si tratta soltanto della dilucidazione teorica della
contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e che forse è
originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene
anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente
ai valori di bene e di male. Tutte e due le pulsioni sono parimenti
indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal
loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire
isolatamente, essa è sempre legata - vincolata, come noi diciamo - con un certo
ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, solo così ne
permette il raggiungimento. Per esempio, la pulsione di autoconservazione è
certamente esotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per
compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta a
oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole
impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di
pulsioni nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di
riconoscerle.
Se Lei è disposto a
proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni umane rivelano anche una
complicazione di altro genere. E’ assai raro che l’azione sia opera di un
singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione
di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente
strutturati per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi l’aveva già
avvertito, un certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava fisica a
Gottinga al tempo dei nostri classici; ma forse egli era anche più notevole
come psicologo di quel che fosse come fisico. Egli scoprì la rosa dei moventi,
nell’atto in cui dichiarò: “I motivi per i quali si agisce si potrebbero
ripartire come i trentadue venti e indicarli con nomi analoghi, per esempio
‘Pane-Pane-Fama’ o ‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini vengono incitati
alla guerra, è possibile che si destino in loro un’intera serie di motivi
consenzienti, nobili e volgari, quelli di cui si parla apertamente e altri che
vengono taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di aggredire e
distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della storia e della
vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto che
questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali,
facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando sentiamo
parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali
siano serviti da paravento alle brame di distruzione; altre volte, trattandosi
per esempio crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero
preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro un
rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.
Ho qualche scrupolo
ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla prevenzione della guerra e
non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei intrattenermi ancora un attimo sulla
nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua
importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo convinti che essa opera in ogni
essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di
ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si
addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a
rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva
allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli
oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita
distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia,
rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare
tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione
della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare
l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività
verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è
spinto troppo oltre in modo diretto; in questo caso è certamente malsano.
Invece il volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione nel mondo
esterno scarica l’essere vivente e non può non avere un effetto benefico. Ciò
serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i
quali noi combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura
di quanto lo sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo
trovare una spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano
una specie di mitologia, in questo caso neppure festosa. Ma non approda forse
ogni scienza naturale in una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei,
nel campo della fisica?
Per gli scopi
immediati che ci siamo proposti da quanto precede ricaviamo la conclusione che
non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Si
dice che in contrade felici, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui
l’uomo ha bisogno, ci sono popoli la cui vita scorre nella mitezza. presso cui
la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Posso a malapena crederci; mi
piacerebbe saperne di più, su questi popoli felici. Anche i bolscevichi sperano
di riuscire a far scomparire l’aggressività umana, garantendo il
soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti
gli altri aspetti tra i membri della comunità. Io la ritengo un’illusione.
Intanto, essi sono diligentemente armati, e fra i modi con cui tengono uniti i
loro seguaci non ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli stranieri.
D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente
l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare
espressione nella guerra.
Partendo dalla
nostra dottrina mitologica delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula
per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla
guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio
ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere
legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami
possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che pur essendo prive di
meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La
psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la
religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Ora, questo è un
precetto facile da esigere, ma difficile da attuare. L’altro tipo di legame
emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà
significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le
identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società
umana.
L’abuso di autorità
da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente
la tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza
tra gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la
stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per
loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a
questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto
finora all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di
indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della
verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia.
Che le intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla
Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di
dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che
avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione.
Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così
tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni
probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire
indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun
rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la
gente muore di fame prima di ricevere la farina.
Vede che, quando si
consulta il teorico estraneo al mondo per compiti pratici urgenti, non ne vien
fuori molto. E’ meglio se in ciascun caso particolare si cerca di affrontare il
pericolo con i mezzi che sono a portata di mano. Vorrei tuttavia trattare
ancora un problema, che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa
particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti
altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita?
La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente,
in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la domanda. Al
fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito fingere un distacco di
cui in realtà non si dispone. La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla
propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i
singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la
propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori
materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre la guerra
nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico
ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di
distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i
contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo
soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un
accordo generale dell’umanità. Qualcuno dei punti qui enumerati può
evidentemente essere discusso: ci si può chiedere se la comunità non debba
anch’essa avere un diritto sulla vita del singolo; non si possono condannare
nella stessa misura tutti i tipi di guerra; finché esistono stati e nazioni
pronti ad annientare senza pietà altri stati e altre nazioni, questi sono
necessitati a prepararsi alla guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente su
tutto ciò, giacché non è questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho in
mente qualcos’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo
contro la guerra è che non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti
perché dobbiamo esserlo per ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il
nostro atteggiamento con argomentazioni.
So di dovermi
spiegare, altrimenti non sarò capito. Ecco quello che voglio dire: Da tempi
immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so,
chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio
di ciò che siamo divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo.
Le sue cause e
origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente
visibili. Forse porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di una
guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi si moltiplicano in
proporzioni più forti le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione
che non quelli altamente coltivati. Forse questo processo si può paragonare
all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta
modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea
che l’incivilimento sia un processo organico di tale natura. Le modificazioni
psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e per nulla
equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete
pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche di piacere,
sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; esistono
fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze ideali, sia etiche che
estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i
più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la
vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi
e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo
più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo
civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la
sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e
affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per
così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le degradazioni
estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore
delle sue crudeltà.
Quanto dovremo
aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma
forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori - un
atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra
futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette
o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò
che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.
La saluto
cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.
Suo Sigm. Freud
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