martedì 4 agosto 2015

La cultura del ferroviere-controllore


A causa delle avarie frequenti della piattaforma IlCannocchiale, dove - in 4 anni e 5 mesi - il mio blog Vincesko ha totalizzato 700.000 visualizzazioni, ho deciso di abbandonarla gradualmente. O, meglio, di tenermi pronto ad abbandonarla. Ripubblico qua i vecchi post a fini di archivio, alternandoli (orientativamente a gruppi di 5 al giorno) con quelli nuovi.

Post n. 512 del 20-12-14 (trasmigrato da IlCannocchiale.it)
La cultura del ferroviere-controllore


Concetto Vecchio
19 DIC 2014
Un libro per Natale


Citazione: “Scrive Parks, a proposito di quel terribile Paese che è oggi è diventata l'Italia: "Una cultura di regole ambigue e di accese discussioni che non portano a nessun risultato preciso sembra fatta apposta per indurti a assumere un atteggiamento mentale basato sulla vendetta e il risentimento che succhia l'energia a ogni altro settore della vita. Diventi un membro della società nella misura in cui ti senti trattato ingiustamente, aggredito". Una fotografia amara”.

L’autoritarismo è la pulsione irrefrenabile del burocrate mediocre o ottuso.
La spiegazione plausibile ce la dà il grande Fedor M. Dostoevskij ne “I Demoni”, per bocca di Stepan Trofimovič Verchovenskij (cito a memoria, e manco a farlo apposta parla di ferrovieri): Tu prendi un qualunque imbecille e lo metti dietro una scrivania a vendere biglietti ferroviari; la sua prima preoccupazione sarà quella di ‘nous montrer son pouvoir’”.

Qual è la causa e quale l’effetto?
Premetto che mi riferirò in particolare agli Italiani meridionali, ma ormai – anche per effetto della tv - c’è un’omologazione. E’ un atteggiamento culturale deteriore che poggia, da un lato, sul sospetto che l’italiano sia un furbo e un imbroglione; e, dall’altro, sulla convinzione che il potente possa prevaricare sul debole.

Cultura (in senso antropologico)
Gli Italiani apprendono e fanno propria gradualmente la cultura locale, intesa ovviamente, come è ben spiegato nella voce di Wikipedia, nel suo significato antropologico, di insieme dei costumi, delle credenze, degli atteggiamenti, dei valori, degli ideali e delle abitudini della popolazione del posto: dal non buttare l’acqua sporca dal balcone, come avveniva nelle case di ringhiera a Milano negli anni ’70, o nel Sud, nel palazzo in cui abitavo, negli anni ’80-‘90) o la carta a terra, al rispettare i patti, la parola data, la fila, la buonafede del cittadino; il sì è sì, il no è no; ecc. ecc.

Diseconomie esterne
Nella mia attività di piccolo imprenditore e poi di lavoratore autonomo, a Napoli, ne ho viste di tutti i colori; ed il rodaggio mi è costato parecchio, in tutti i sensi.
All’inizio della mia permanenza (ora, le cose sono migliorate), tre cose in generale m’impressionarono subito: 1) la stragrande maggioranza dei napoletani non dà la precedenza alle ambulanze; 2) non si rispettano i semafori rossi e, se tu ti fermi, dietro s’arrabbiano pure e strombazzano senza sosta; 3) il numero esorbitante di motorini che transitano pericolosamente sui marciapiedi, in mezzo alla gente.
Per le ambulanze, chiesi lumi agli amici napoletani: mi dissero che non si fermano e non le fanno passare perché gli autisti fanno i furbi per tornare prima, perché NON portano nessun paziente a bordo. Obiettai: ma come fate a saperlo? Non lo sappiamo, ma noi ragioniamo come se lo fosse, sicuri della furbizia dell’autista, che va punita… (con una severità esagerata, che è sempre un chiaro indizio di coda di paglia). Questo è (era) solo un esempio – invero eclatante – della logica stortignaccola imperante a Napoli.
Per un’induzione estrapolata dall’esperienza personale di 15 anni, nell’intera Campania, in particolare nel napoletano, ritengo siano davvero impressionanti il numero di volte, i Km sprecati, le centinaia di migliaia (o milioni) di telefonate, i milioni (forse miliardi complessivamente finora) di € che vengono buttati al vento, a causa degli appuntamenti di lavoro non rispettati, anche più volte, anche se li si conferma prima di partire; o a causa della sub-cultura locale, retaggio forse storico, che induce un numero incredibile di persone (quasi tutti?) a dire sì, sono interessato, anche quando è no, non sono interessato (è la riedizione nella vita reale di quello che avviene nella vita onirica: il ribaltamento del significato). Può sembrare incredibile, ma, a differenza dei Paesi civili, il rapporto di lavoro – oltre che quello sociale – difficilmente, a Napoli, è basato sul rispetto reciproco, ma spesso su una sorta di competizione sleale, alimentata da un sentimento di supposta superiorità, venata talvolta di un vero e proprio “sadismo” vendicativo compiaciuto, della serie (me l’hanno confidato): ora, io sono il martello e gli altri l’incudine; oppure, l’han fatto a me ed io lo faccio agli altri; in una catena diabolica infinita e costosissima.

Bugie e permalosità
Abbozzo una spiegazione, spero di riuscire a spiegarmi. Può sembrare esagerato, ma la bugia e la permalosità sono parti costitutive della natura del meridionale: la prima, strumento difensivo, è forse anch’essa retaggio storico, come il “sì” in luogo del “no”, per non inimicarsi il signorotto; la seconda, forse legata alla concezione “divina” di sé (pendant dell’ottusità), frutto della cultura dell’intolleranza e della derisione (appetto a quella del dialogo, dell’ironia e del rispetto reciproco, almeno tendenzialmente, più propriamente centro-settentrionale). Tutti i deboli e gli ottusi hanno un amor proprio malato e sono permalosissimi.

Soluzioni
Se si facesse un’indagine comparativa tra i vari Paesi, sono sicuro emergerebbero due fattori chiave peculiari dell’Italia: uno, di carattere etico-normativo, sul ruolo protettivo ed orientato alla scarsa disciplina e bassa propensione al rischio dei genitori, segnatamente della mamma, nella costruzione della personalità dei figli; l’altro, la carente diffusione di quello che Robert Musil sintetizza così: “La forza di un popolo è conseguenza dello spirito giusto, e non vale l’inverso”, sostituito da una marcata inclinazione alla lamentela.
Si dice che l'educazione è l'insegnamento sostenuto, rafforzato dall'esempio. Ne consegue che se si vuole migliorare la situazione italiana, e diffondere il buon esempio, occorre investire nell’educazione. Cominciando dalla famiglia.
Anche per esperienza empirica diretta, si comprende che, al netto del carattere, vale a dire del fattore innato, l'educazione (che è interazione con l’ambiente, in primis quello familiare) svolge un ruolo fondamentale nella costruzione della personalità e nel determinare l’etica individuale, il senso civico, la propensione al rischio, lo spirito cooperativo, il rispetto del prossimo.
Poi viene la scuola. L'istruzione nei Paesi avanzati, e non solo, è una priorità, lo dovrebbe essere a maggior ragione per l'Italia che - non avendo risorse materiali - dovrebbe investire in capitale umano. Ostano oggi (ragionando per il futuro) due fattori: 1) la penuria di risorse pubbliche, aggravata ora dal vincolo del pareggio di bilancio; 2) l'inefficienza (misurabile dall'output, dai risultati: il parametro da considerare è il livello medio), consolidata nei decenni, del settore istruzione, che è diventato, in assenza di alternative più appetibili, uno sbocco occupazionale per un “esercito” male retribuito, che attrae quindi non sempre i più idonei, competenti e motivati. Il tutto aggravato dall'insufficiente (eufemismo) cooperazione tra la scuola e la famiglia, poiché, come spiegava tempo fa Marco Rossi Doria a Radio3-"Tutta la città ne parla", almeno per le Elementari, “l'insegnamento è 50% didattica e 50% alleanza insegnante-genitori”.

Invece, spesso, al posto della cooperazione, c’è una guerra: tra donne, visto il grado di femminilizzazione del corpo insegnanti e l’evoluzione demografica (famiglie monoparentali con figli affidati alla madre) e culturale (una sorta di familismo amorale mammone, iper-permissivo, a-meritocratico) della famiglia italiana, dove la figura materna la fa da padrona (il matriarcato, almeno al Sud, esiste da secoli e non è mai scomparso; il Centro-Nord si sta omologando).
Ed invece la cooperazione, per eliminare o almeno ridurre fortemente le disuguaglianze, dovrebbe diventare strutturale, con una divisione formale di compiti tra la famiglia, nel periodo fondamentale dalla gravidanza a 3 anni (v. il mio post linkato sotto) e la scuola (materna, elementare, ecc.) dopo i 3 anni.
Delle materie di studio deve far parte necessariamente anche l’educazione sessuale (ma è meglio parlare più semplicemente di istruzione o informazione sessuale, cominciando, come dico al 3° punto del mio progetto educativo allegato nel post linkato sotto, dalla NON repressione delle curiosità sessuali), poiché Freud – che si sa era un po’ fissato per il sesso – ravvisava una relazione tra questo e lo sviluppo intellettivo, segnatamente delle femminucce; e vincendo la ferma e costante opposizione dei genitori, addirittura anche quando essa è destinata ai genitori stessi.



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