Dopo
che avevo ‘postato’ un commento rettificativo sul loro sito in calce a questo
articolo https://www.lacittafutura.it/interni/la-truffa-si-vive-meno-ma-aumenta-l-eta-per-andare-in-pensione.html,
la redazione del giornale on-line La
Città Futura mi ha chiesto di inviarle un articolo sulle pensioni,
includendo se possibile un riferimento a quanto sostenuto dalla Corte dei Conti
all’inizio del mese. Lo pubblico anche qua. Il titolo e alcune piccole modifiche
utili alla polemica politica sono redazionali.
Pensioni: l’estremismo di Banca D’Italia e Corte dei Conti
Pur nel quadro delle compatibilità
neo-liberiste, c’è davvero bisogno di tanto rigore?
Il governo ha da poco varato la Nota di aggiornamento al Documento di
Economia e Finanza (DEF) sposando le considerazioni di Bankitalia e Corte
dei Conti sulle pensioni. “Le ultime proiezioni sulla spesa pensionistica mettono
in evidenza l’importanza di garantire la piena attuazione delle riforme
approvate in passato, senza tornare indietro”, osserva palazzo Koch, mentre
i magistrati contabili evidenziano che “non si tratta, evidentemente, di
rispondere alle nuove evidenze con ulteriori restrizioni dei parametri
sottostanti al disegno di riforma completato con la legge Fornero; si tratta invece
di cogliere ancor meglio il senso della delicatezza del comparto e confermare i
caratteri strutturali della riforma, a partire dai meccanismi di adeguamento
automatico di alcuni parametri (come i requisiti anagrafici di accesso alla
evoluzione della speranza di vita e la revisione dei coefficienti di
trasformazione). Ogni arretramento su questo fronte, esporrebbe il comparto e
quindi la finanza pubblica in generale a rischi di sostenibilità”.
Parole pesanti che chiudono la porta ai
Sindacati che avevano chiesto un ammorbidimento del meccanismo introdotto dalla
riforma Sacconi dell’adeguamento all’aspettativa di vita, che dovrebbe far
scattare un altro aumento di ben 5 mesi a decorrere dal 2019, portando così
l’età di pensionamento di vecchiaia esattamente a 67 anni per tutti.
Ma pur nel quadro delle compatibilità
neo-liberiste, c’è davvero bisogno di tanto rigore?
Dopo la
crisi del debito greco, vengono emanate in Italia nuove ed
incisive norme riguardanti le pensioni, i cui scopi dichiarati sono: (i) di
equilibrare ‘strutturalmente’ la spesa pensionistica pubblica, costituita dagli
assegni pensionistici correnti, con i contributi sociali (che comprendono i
contributi previdenziali) versati dai lavoratori in attività; (ii) di mettere
‘in sicurezza’ i conti previdenziali, facenti parte dei conti pubblici, e
rendere ‘sostenibile’ il sistema previdenziale nel lungo periodo.
Le nuove norme pensionistiche sono comprese
in due provvedimenti legislativi organici, che vanno sotto il nome,
rispettivamente, di “Riforma delle pensioni Sacconi” e “Riforma delle
pensioni Fornero”. Esse completano un ciclo di incisive riforme
pensionistiche iniziato nel 1992. Da allora, le riforme delle pensioni,
considerando un’unica riforma le norme emanate da Sacconi nel 2010 e 2011
(oltre che nel 2009, col DL 78/2009), sono state sette: Amato, 1992; Dini,
1995; Prodi, 1997; Berlusconi/Maroni, 2004; Prodi/Damiano, 2007; Berlusconi/Sacconi,
2010 e 2011; Monti-Fornero, 2011.
La riforma Sacconi (2010 e 2011,
oltre a Damiano, 2007: DL 78/2010, L. 122/2010, DL 98/2011, L. 111/2011 e DL
138/2011, L. 148/2011), è più corposa, immediata e recessiva di quella Fornero;
in sintesi, essa ha introdotto:
1. L’aumento dell'età per il pensionamento sia di vecchiaia che di anzianità;
2. La "finestra” (= differimento dell’erogazione) di 12 mesi per tutti i
lavoratori dipendenti pubblici e privati o 18 mesi per tutti quelli autonomi
(“finestra” mobile che incorpora la “finestra” fissa, mediamente di 4 mesi,
introdotta dalla Riforma delle pensioni Damiano con la L. 24/12/2007, n. 247);
3. L'allungamento, senza gradualità, di 5 anni (+ “finestra”) dell’età di
pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti pubbliche per
equipararle a tutti gli altri a 65 anni (più “finestra”), tranne le lavoratrici
private;
4. L'adeguamento triennale all’aspettativa di vita, che porterà l’età di
pensionamento di vecchiaia a 67 anni nel 2020.
La riforma
Fornero (DL 201/2011, L. 214/2011) ha stabilito, principalmente:
1. L’estensione pro-rata del metodo contributivo a coloro che erano
esclusi dalla riforma Dini del 1995 (anzianità contributiva maggiore di 18
anni), a decorrere dall'1.1.2012;
2. L’aumento di un anno delle pensioni di anzianità (ridenominate
“anticipate”) ed eliminazione delle cosiddette quote (somma di età anagrafica e
anzianità contributiva);
3. L’allungamento graduale entro il 2018 dell’età di pensionamento di
vecchiaia delle dipendenti private da 60 anni a 65 (più ‘finestra’), per
allinearle a tutti gli altri;
4. L’adeguamento all’aspettativa di vita, dopo quello del 2019, non più a
cadenza triennale ma biennale.
Gli effetti della
riforma si avranno soprattutto a partire dal 2020.
Si noti bene che
la legge Fornero ha opportunamente eliminato la “finestra” di 12 mesi (estesa
anche ai lavoratori autonomi, in luogo dei 18 mesi) sostituendola con un
allungamento corrispondente dell’età base, ma l’allungamento (già recato dalle
riforme Sacconi e Damiano con le “finestre”) è solo formale. Ciò ha sia dato
maggiore trasparenza al sistema, sia reso omogeneo il dato dell’età di
pensionamento nel confronto internazionale.
Come si arguisce
facilmente confrontando le misure, l’allungamento eccessivo dell’età di
pensionamento è stato deciso molto più da Sacconi (DL 78/2010, art. 12, +
integrazioni con DL 98/2011 e DL 138/2011) che da Fornero (DL 201/2011, art.
24):
·
sia portando l’età di pensionamento per vecchiaia,
senza gradualità, a 66 anni per tutti i lavoratori dipendenti e a 66 anni e 6
mesi per tutti i lavoratori autonomi, tranne le lavoratrici dipendenti del
settore privato, per le quali ha poi provveduto Fornero nel 2011, ma
gradualmente entro il 2018;
·
sia introducendo – sempre Sacconi e non Fornero –
l’adeguamento triennale all’aspettativa di vita (che dopo il 2019, in forza
della riforma Fornero, diverrà biennale), che ha portato finora l’età di
pensionamento di vecchiaia a 66 anni e 7 mesi e la porterà a 67 nel 2020, o
forse prima.
Anche il sistema contributivo l’ha introdotto Dini nel 1995, non la Fornero nel
2011; ella ha solo incluso, col calcolo pro rata dal 1° gennaio 2012,
quelli esclusi dalla legge Dini, che all’epoca avevano già più di 18 anni di
contributi, quindi nel 2012 tutti relativamente anziani, equiparando così i
giovani e tutti gli altri.
Come è potuto
succedere un caso così eclatante di disinformazione sulle pensioni, analogo a quelli coevi sul risanamento iniquo e recessivo dei conti
pubblici nella scorsa legislatura, che quasi tutti i 60 milioni di italiani
ascrivono a Monti, quando invece Berlusconi lo ha battuto per ben 4 a 1 (267
mld cumulati contro 63), o sugli obiettivi statutari della BCE che sono due e
non uno soltanto? I 60 milioni di Italiani sono stati vittime della vulgata
diffusa ad arte dalla potentissima propaganda berlusconiana-leghista e simile;
coadiuvata dalla stessa professoressa Fornero, la quale, nella sua legge di
riforma (DL 201/2011, art. 24), anziché – come si fa di solito – limitarsi a
modificare ed integrare la legislazione preesistente, ha confermato e ripetuto
le misure della severa riforma Sacconi, il quale, dal suo canto, non ha
rivendicato la paternità e smascherato il plagio ma col suo lunghissimo
silenzio lo ha assecondato.
Per quanto
attiene, infine, alla spesa pensionistica, i risparmi di spesa dopo le varie
riforme dal 2004 sono stati dalla Ragioneria Generale dello Stato (RGS)
quantificati in 900 mld fino al 2060 e ascritti, tagliando istituzionalmente la
testa al toro della disinformazione sulle pensioni, solo per circa un terzo del
totale alle riforme dal 2011 (modifiche della riforma Sacconi e riforma
Fornero) e quindi per meno di un terzo ascrivibili alla riforma Fornero [1].
Nonostante
questi risparmi di entità elevatissima, oltre alla RGS, sia la Banca d’Italia
sia la Corte dei Conti, nelle loro audizioni al Parlamento sulla Nota di
variazione al DEF 2017, si sono dette contrarie ad intervenire “sull’adeguamento
automatico di alcuni parametri (come i requisiti anagrafici di accesso alla
evoluzione della speranza di vita e la revisione dei coefficienti di
trasformazione)”. Il motivo della contrarietà è riconducibile al rischio di
pregiudicare nel medio-lungo periodo la ‘sostenibilità’ del sistema
pensionistico, a causa di una riduzione del Pil dovuta soprattutto a due
fattori di ordine demografico: (a) la flessione del tasso di natalità e (b) un
minore apporto netto dell’immigrazione, relativamente al periodo dal 2020 al
2045. “Per effetto della revisione delle ipotesi demografiche, e
principalmente della riduzione del flusso netto di immigrati, la popolazione
italiana al 2060 è prevista contrarsi di oltre 9 milioni rispetto al livello
stimato nel precedente round previsivo e, contestualmente, l’indice di
dipendenza degli anziani aumenta di oltre 8 punti percentuali”, per cui “il
livello della spesa pensionistica in rapporto al PIL aumenta di circa 2 punti
percentuali nel 2035, raggiunge un massimo di 2,6 punti percentuali intorno al
2045, per poi ridursi a circa 1,2 punti percentuali al 2060 e a 0,5 punti
percentuali al 2070”.
Tra le tante
critiche che si possono muovere al riguardo, ve ne sono tre che rivelano il
carattere politico della posizione estremista e ortodossa di Bankitalia e Corte
dei Conti: (i) l’aleatorietà delle previsioni a lunghissimo termine, per altro
condivisa dalla stessa Corte dei Conti (“forti incertezze connaturate a
previsioni di lunghissimo periodo”); (ii) la stranezza dell’evoluzione
demografica posta a base della nuova previsione ISTAT, che, a pensar male, sembra confezionata ad arte per parare richieste di
modifica alle pensioni; e (iii) soprattutto, la composizione della spesa
pensionistica, che comprende voci spurie.
È importante
osservare, infatti, che la spesa pensionistica italiana include (nel confronto
internazionale) delle voci spurie, che sono:
1. TFR, che è salario differito e può essere riscosso anche decenni prima del
pensionamento;
2. Un 10% di spesa assistenziale sul totale della spesa pensionistica, che è
stata pari nel 2016 a 265 mld;
3. Un peso fiscale comparativamente maggiore (la spesa pensionistica italiana
è al lordo di quasi 50 mld di imposte, che per il bilancio pubblico sono una mera
partita di giro);
4. Un uso prolungato, a causa dell’assenza di adeguati ammortizzatori sociali
(usati negli altri Paesi, dove non vengono classificati spesa pensionistica),
delle pensioni di anzianità appunto come ammortizzatore sociale;
5. Infine, nella spesa pensionistica degli altri Paesi andrebbero sommati gli
incentivi fiscali ( = minori entrate) alle pensioni integrative (v., in
particolare, la Gran Bretagna).
Al netto delle
voci spurie, la spesa pensionistica liquidata nel 2016 ammonta a quasi 200 mld,
di cui circa 20 mld di natura assistenziale, [2] e la sua incidenza sul Pil
passa dal 16% al 12% circa, che è inferiore al dato “lordo” previsto per il
2060, con ampio spazio quindi almeno per introdurre due correttivi compatibili
col sistema vigente: (i) che
l’adeguamento sia anche previsto in diminuzione in caso di riduzione
dell’aspettativa di vita; e (ii) che
esso resti a cadenza triennale anche dopo il 2019, quando dovrebbe diventare
biennale.
In conclusione,
è ragionevole pensare che la preoccupazione della Corte dei Conti su un
parziale alleggerimento dell’adeguamento automatico all’aspettativa di vita non
potrebbe inficiare il suo giudizio che “nel panorama internazionale il nostro
Paese può vantare un sistema pensionistico di avanguardia, sistema che per le
sue intrinseche caratteristiche (stretta correlazione attuariale tra
prestazioni e contributi versati) è stabile e intergenerazionalmente
sostenibile nel lungo termine” [3]. E che sarebbe strano se anche la
Commissione Europea, nel suo prossimo rapporto, non confermasse il giudizio
espresso in passato, e confermato dalla BCE, ossia che, dopo le riforme, il
sistema pensionistico italiano è tra i più severi e ‘sostenibili’ in UE28 [4].
______________________________
Note:
[1] LE
TENDENZE DI MEDIO-LUNGO PERIODO DEL SISTEMA PENSIONISTICO E SOCIO-SANITARIO –
Rapporto n. 18. Previsioni elaborate con i modelli della Ragioneria Generale dello Stato
aggiornati al 2017 – Rapporto n. 18
Box 2.3 - Effetti finanziari del complessivo ciclo di
riforme adottate dal 2004 (pag. 76):
Considerando l’insieme
degli interventi di riforma approvati a partire dal 2004 (L 243/2004), si
evidenzia che, complessivamente, essi hanno generato una riduzione
dell’incidenza della spesa pensionistica in rapporto al PIL pari a circa 60
punti percentuali di PIL, cumulati al 2060. Di questi, circa due terzi sono
dovuti agli interventi adottati prima del DL 201/2011 (convertito con L
214/2011) e circa un terzo agli interventi successivi, con particolare riguardo
al pacchetto di misure previste con la riforma del 2011 (art. 24 della L
214/2011).
[2] L’Osservatorio
statistico sulle pensioni è stato aggiornato con i dati
relativi alle pensioni vigenti al 1° gennaio 2017 e liquidate nel 2016. Al 1° gennaio 2017
le pensioni erogate dall’INPS, con esclusione di quelle a carico delle Gestioni
Dipendenti Pubblici ed ex-ENPALS, sono 18.029.590. Di queste, 14.114.464 sono
di natura previdenziale, cioè derivano dal versamento di contributi
previdenziali, mentre le altre 3.915.126, che comprendono invalidità civili,
indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali, sono di natura
assistenziale. Nel 2016 la spesa complessiva per le pensioni è stata di 197,4
miliardi di euro, di cui 176,8 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali.
2. I risultati dell’analisi allora offerta [Rapporto 2016] portarono a tre
principali conclusioni: i) nel panorama internazionale il nostro Paese può
vantare un sistema pensionistico di avanguardia, sistema che per le sue
intrinseche caratteristiche (stretta correlazione attuariale tra prestazioni e
contributi versati) è stabile e intergenerazionalmente sostenibile nel lungo
termine ed è riuscito anche a correggere alcuni squilibri di medio periodo che
si manifestavano, dopo la riforma Dini, soprattutto in termini di una
indesiderata “gobba” nella curva tra spesa pensionistica e prodotto interno
lordo; ii) tuttavia, la sostenibilità finanziaria del sistema poggia
crucialmente su parametri macroeconomici di lungo termine (evoluzione
demografica - flussi di natalità, mortalità, migratori -, andamento
dell’occupazione e della produttività, ecc.) la cui dinamica è di difficile
previsione e soggetta a rischi, dal che consegue che l’aver realizzato un
sistema equilibrato nel suo disegno è condizione necessaria ma non sufficiente
per gli equilibri dei saldi pubblici dei prossimi decenni; iii) il sistema
realizzato, pur complessivamente solido, non è privo di residue insufficienze,
tali essendo in particolare l’elevata quota di prestazioni pensionistiche
“povere”, la modesta flessibilità nelle modalità di accesso alle prestazioni,
l’inadeguata soluzione del problema del rapporto tra longevità e capacità
lavorative degli anziani.
[4] Si veda anche l’Annual Ageing Report. Si veda anche: Vítor Constâncio,
Vice Presidente BCE quando
dichiara che “è precisamente nel campo delle riforme per contenere
il peso a lungo termine dell’invecchiamento della popolazione sulla spesa pubblica
che I paesi sotto stress hanno già effettuato aggiustamenti. L’Italia ed il
Portogallo, per esempio, hanno aumenti stimati per spese legate alla longevità
minimali…”. Come il grafico sottostante conferma.
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Tre casi di
DISINFORMAZIONE generale tra i più macroscopici della storia italiana
Pensioni:
notizie false (fake news)
Lettera al Sen.
Prof. Pietro Ichino su un suo errore di attribuzione di un’importante norma
pensionistica
Pensioni, dopo
una mia lettera Repubblica rettifica
una notizia falsa che circola sui media da sei anni
L’articolo
è stato ripreso dal sito Sinistrainrete.
Pensioni: l’estremismo di Bankitalia e Corte dei Conti
di Vincesko
Created: 27 October 2017
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