giovedì 23 luglio 2015

Rinascimento industriale in vista per l’Italia


A causa delle avarie frequenti della piattaforma IlCannocchiale, dove - in 4 anni e 5 mesi - il mio blog Vincesko ha totalizzato 700.000 visualizzazioni, ho deciso di abbandonarla gradualmente. O, meglio, di tenermi pronto ad abbandonarla. Ripubblico qua i vecchi post a fini di archivio, alternandoli (orientativamente a gruppi di 5 al giorno) con quelli nuovi.

Post n. 455 del 14-06-14 (trasmigrato da IlCannocchiale.it)
Rinascimento industriale in vista per l’Italia


Dopo la prima buona notizia (AnalisiQQ/28-Entrate tributarie gennaio-marzo 2014  http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2810779.html oppure http://vincesko.blogspot.com/2015/07/analisi-quali-quantitativa28-entrate.html), la seconda (Made in Italy, bello e ben fatto http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2810945.html oppure http://vincesko.blogspot.com/2015/07/made-in-italy-bello-e-ben-fatto.html ) e la terza (Spread BTP-Bund, minimo storico del rendimento http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2811273.html oppure http://vincesko.blogspot.com/2015/07/spread-btp-bund-minimo-storico-del.html ), pubblico volentieri qui la quarta buona notizia, che riguarda addirittura il Rinascimento industriale dell’Italia, atteso che uno dei punti deboli dell’Italia e di cui molto si discute è la bassa produttività, poiché, nei calcoli macroeconomici, al numeratore non va la "quantità" dell'output ma il "valore", che risente anche del livello degli investimenti (in macchinari, ricerca e sviluppo e innovazione di prodotto e di processo) e quindi del valore aggiunto dei prodotti. Sotto questo aspetto, l'Italia (prodotti "poveri",  salari "poveri", ecc.) sta messa male rispetto ai Paesi di confronto, in particolare la Germania.

Rinascimento in vista per l’Italia
Smettiamola di piangerci addosso... Negli ultimi 15 anni l’industria italiana ha posto le basi per una potenziale crescita economica, puntando più sulla qualità che sulla quantità, distinguendosi in settori ad alta specializzazione
«La missione dell’Italia», sosteneva Carlo Maria Cipolla, storico dell’economia scomparso nel 2000, «è produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo». Chissà cosa penserebbe nel vedere l’Italia di oggi, reduce da una crisi economica che ha provocato un crollo del pil di oltre il 9% in un quinquennio. Probabilmente non avrebbe cambiato idea. Anzi, lo studioso avrebbe forse individuato i germogli di un nuovo Rinascimento industriale, dopo una recessione che non si era mai vista prima, dal dopoguerra in poi.
COME È CAMBIATA LA PRODUZIONE TRICOLORE
Certo, le difficoltà del Sistema-Paese sono ancora tante, troppe. Ma, ne­gli ultimi 15 anni, l’industria del made in Italy ha subito una trasformazione si­gnificativa che potrebbe aprire la strada (anche se il condizionale è d’obbligo) a un ciclo virtuoso di crescita economi­ca nei decenni a venire. Per render­sene conto, basta confrontare i dati sulla bilancia commerciale del 1995 con quelli del biennio 2011-2013. In circa tre lustri, l’Italia ha mantenuto la propria posizione di grande esportatore e oggi ha un surplus commerciale manifatturiero superiore ai 100 miliardi di euro. Soltanto la Cina, il Giappone, la Corea del Sud e la Germania fanno altrettanto, mentre le altre potenze economiche globali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna sino alla Francia, presentano un dato pesantemente negativo. Inoltre, da quando è entrato in vigore l’euro, molte imprese hanno smesso di far leva soltanto sul fattore-prezzo per competere con l’industria straniera, non potendo più contare sulle ripetute svalutazioni della lira. Così, il sistema manifatturiero si è spostato da prodotti di qualità medio-bassa a produzioni di alta gamma. Oggi, per esempio, l’Italia non è più un grande esportatore di abbigliamento e calzature a basso costo, bensì di vini pregiati, di prodotti agroalimentari di qualità, di beni di lusso o vestiti griffati, ma soprattutto di macchine agricole, di mezzi di traspor­to (automobili escluse) e di macchinari per l’industria, spesso disegnati su misura per le grandi fabbriche straniere. Nel 2012-2013 l’export della meccanica italiana è stato pari al doppio di quello realizzato complessivamente nei settori tessile, abbigliamento, pellame e calzature.
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COMPARTI IN SALUTE
Anche altri comparti, nell’ultimo quinquennio hanno avuto perfor­mance da capogiro. È il caso della far­maceutica, in cui l’Italia, nei decenni scorsi, non ha brillato particolarmente, ma di cui oggi siamo secondo produtto­re in Europa, con un fatturato annuo di 25,7 miliardi di euro (di cui il 70% esportato), alle spalle della Germania (26,4 miliardi), ma ben al di sopra della Francia (20,2 miliardi), della Gran Bre­tagna (19,6 miliardi) o della Spagna (14 miliardi). Tra il 2008 e il 2013, l’export di medicinali made in Italy è cresciu­to complessivamente di oltre il 64%, più del doppio della media Ue. Sono dati che gli enti di ricerca economica Fondazione Edison e Fondazione Symbola conoscono bene e hanno portato spesso all’attenzione dell’opinione pubblica, per smentire i luoghi comuni sul declino del Paese. Per entrambe le fondazioni, i problemi dell’Italia vanno ricercati al suo interno, nell’inefficienza dei servizi pubblici e della burocrazia o in un sistema fiscale avverso a chi fa business, così come nella dipendenza dall’estero per le materie prime, dovuta ai pochi sforzi compiuti dai governi per raggiungere l’autosufficienza energetica. Non a caso, le importazioni di minerali e commodity energetiche, come petrolio e gas, sono una pesante zavorra per la nostra bilancia commerciale, con un saldo negativo di circa 70 miliardi, oltre cinque volte in più rispetto al 1995.
NUMERI DA PRIMATO
Per gli analisti di Symbola e della Fondazione Edison, dunque, meglio mettere da parte la retorica e cercare piuttosto i “germogli” di un nuovo Rinascimento industriale. Oltre ai settori sopra ricordati, infatti, ve ne sono altri in cui il nostro sistema produttivo inizia a mostrare o ha conservato nel tempo un certa vitalità. L’Italia, per esempio, è la terza nazione europea per numero di aziende biotecnologiche, alle spalle della solita Germania e della Gran Bretagna; è prima nel Vecchio continente in alcuni segmenti della robotica (come quella applicata al settore automobilistico), ha un’industria delle nanotecnologie ancora in fase di sviluppo dando lavoro a oltre 4 mila persone. Ma è anche settima potenza mondiale nel settore dell’aerospazio, con circa 50 mila addetti e un fatturato annuo attorno a 13 miliardi di euro. Senza dimenticare gli investimenti fatti nella green economy dalle aziende del made in Italy che, in rapporto ai ricavi generati, hanno il tasso meno elevato di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera: 104 tonnellate di CO2 per ogni milione di euro prodotto, contro le 143 della Germania. Infine, non va dimenti­cato il turismo. Benché non sia più leader per numero di arrivi dall’estero, l’Ita­lia è comunque seconda dopo la Spagna per quantità complessiva di per­nottamenti di turisti stranieri ed è prima nel segmento dei viaggiatori extraeuropei, provenienti non solo dal Giappone e dagli Stati Uniti, ma anche da nazioni emergenti come la Cina e il Brasile. Se è dunque vero che nel Paese dei campanili si fanno cose belle, come sosteneva Cipolla, ci sono milioni di persone pronte a salire su un aereo per vederle.
NUOVE GEOGRAFIE 
Le tante aziende d’eccellenza italiane che possono diventare protagoniste di un nuovo Rinascimento industriale sono state citate in un documento redatto lo scorso anno dalla Fondazione Symbola in collaborazione con la Fondazione Edison e Unioncamere,
Le nuove geografie del made in Italy. Quasi tutte ruotano attorno ai vecchi distretti imprenditoriali che, negli ultimi 15 anni, si sono rigenerati per adeguarsi alle sfide della globalizzazione. È il caso del polo fiorentino del lusso, dove tante piccole e medie aziende di pellame per abbigliamento hanno abbandonato la produzione in proprio per inserirsi nella rete di subfornitura delle grandi griffe, da Gucci a Prada a Ferragamo, attirando anche gli americani Ralph Lauren, Donna Karan e Tommy Hilfiger.
Un contributo fondamentale alla crescita dell’export è arrivato però dalla meccanica, meno conosciuta delle tradizionali icone del made in Italy e trasformatasi nel cuore pulsante della nostra industria. Una delle nicchie di eccellenza è senza dubbio il segmento dei macchinari per il confezio­namento dei prodotti di largo consumo (packaging), che ha il suo fulcro lungo la via Emilia, in un distretto in cui si trovano 170 imprese produttrici, tra cui spiccano la Mc Automations di Casalecchio sul Reno, la Imball di Sasso Marconi, la bolognese Coesia o la imolese Sacmi. Non vanno dimenticati i distretti della meccatronica, come quello piemontese con 196 aziende, tra cui Prima Industrie, Fiedo e Comau. Un altro distretto della meccatronica si trova al Sud, in Puglia, dove spicca Mermec, numero uno al mondo nella diagnostica e nella manutenzione ferroviaria.
Sempre al Sud, ci sono eccellenze nel comparto dell’aerospazio dove, oltre ai grandi player internazionali come Alenia Aeronautica, Thales Alenia Space, Avio, Selex Galileo e Microtecnica, si sono sviluppate realtà di medie dimensioni attive su scala internazionale. È il caso della napoletana Magnaghi Aeronautica o della Aviogei di Latina, che produce apparecchiature per aeroporti con commesse in tutto il mondo. Non mancano esempi anche nel Centro Italia, come Umbro Cuscinetti di Perugia, specializzata nella produzione di componenti per la stabilizzazione degli aerei. Se a questi nomi si aggiungono poi le start up o di medie aziende attive in settori innovativi come le nanotecologie e le biotecnologie, la robotica o la produzione di componenti elettronici, il quadro del tessuto imprenditoriale italiano appare tutt’altro che sconfortante. Altro che declino, qui ci sono davvero le basi per un Rinascimento industriale.


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Pubblicato: giugno 15, 2014 da Federico Stoppa in Economia e Politica
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